IN CERCA DI SCAMPO
Sono ormai prossimo alla “settantina”, eppure i ricordi della mia esistenza che riaffiorano più vivi alla mente si riferiscono, con maggior frequenza, agli anni della fanciullezza, piuttosto che ai periodi successivi.
E’ come se l’essersi impressi per primi nelle pagine ancora bianche della memoria, avesse conferito loro un più efficace risalto.
L’episodio che mi accingo a raccontare può farsi risalire all’età compresa fra gli otto e i dieci anni.
Chi, come me, non è più di “primo pelo”, ricorderà certamente che tutte le nostre strade extraurbane, fino a circa cinquant’anni or sono, erano in terra battuta, prive di asfalto e formate da breccia pressata.
Specialmente nella stagione secca, esse abbondavano di uno strato di povere bianca, simile a cipria ed i frequenti passaggi dei carri trainati da buoi e da altri quadrupedi, vi lasciavano abbondanti quantità di escrementi, che seccando, si andavano a mescolare alla breccia ed alla polvere, creando condizioni ideali allo sviluppo di microbi infettivi.
Aggiungasi che, all’epoca del racconto, la scarsità di traffico veicolare riduceva al minimo i pericoli di incidenti ed io, accompagnato da qualche parente, mi lasciavo facilmente afferrare dalla voglia di correre sfrenatamente lungo i bordi stradali.
Capitava, così, con una certa frequenza, che qualche caduta producesse delle escoriazioni (“sbucciature”) più o meno serie alle parti più esposte, cioè ai ginocchi ed alle mani.
Non per nulla, ricordo che mio padre teneva sempre nel taschino della giacca una boccettina con alcool denaturato, che noi bambini chiamavamo “lo spiritino”, con il quale egli puliva e disinfettava le ferite, mentre noi gli strillavamo “soffia! soffia!”, per attutirne il bruciore.
Rammento di non essere mai stato molto coraggioso: mi terrorizzava, in modo particolare, il fatto che, quando si doveva ricorrere a fasciare una ferita, la garza posta al suo contatto, si attaccasse alla crosta che si produceva seccando.
Una volta che una caduta più rovinosa di altre mi produsse un’ estesa escoriazione ad un ginocchio, si dovette ricorrere alla medicheria dell’ospedale, dove la caritatevole ma energica Suor Delfina, circondata dall’acre odore di etere, mi appariva come il carnefice delle più truculente storie di orrore.
In quella occasione, mi rammento quando, tornando a far cambiare la fasciatura, steso sul lettino dell’infermeria, constatai con terrore che la garza era attaccata alla ferita per un buon tratto.
A questo punto, entrò in scena Stan Laurel, il popolare Stanlio dei films comici americani degli anni trenta.
“Che ci azzecca?” direbbe Antonio Di Pietro.
Penso che tutti ricordino la scena finale dell’esilarante film “Fra Diavolo”, nella quale il finto Marchese di San Marco ed i suoi maldestri compari vengono posti dinanzi al plotone d’esecuzione.
Stanlio, prima della fatale scarica, chiede, quale ultimo desiderio, di soffiarsi il naso. Estratto da una tasca e ben sciorinato un fazzolettone rosso, scatena la furia di un toro chiuso in un’adiacente stalla che, imboccatane di gran corsa l’uscita, disperde il plotone, creando una confusione generale, che consente ai condannati di riacquistare la libertà, fuggendo precipitosamente, Fra Diavolo servendosi di un cavallo e Stanlio ed Ollio in groppa allo stesso toro.
Io conoscevo molto bene quello spassoso film, come pure la maggior parte delle comiche della più celebre coppia del cinema americano.
Cercando in qualche modo di ritardare il paventato intervento di Suor Delfina sul mio dolorante ginocchio e sperando forse che un inatteso, improbabile colpo di scena avesse potuto sottrarmi a quello che giudicavo un vero supplizio, mi uscì dalla gola il grido, fra patetico e disperato: “Aspettate un momento, ché debbo soffiarmi il naso!”, provocando, com’era da immaginarsi, l’ilarità di tutti i presenti.
(Luglio 1998)