IL DIAVOLO FA LE PENTOLE ...
Il provvedimento con il quale il GIP del Tribunale di Roma Maurizio Pacioni ha respinto la richiesta di archiviazione per l’accertamento delle responsabilità dei partigiani autori dell’attentato di Via Rasella, il 23 Marzo 1944, considerandolo un “atto illegittimo di guerra”, ha suscitato le più aspre polemiche, sopratutto da quella parte politica che ha mostrato di avere interesse che tutto resti come fino ad oggi prospettato, e che, in conclusione, come dichiara napoletanamente Pasquale Balsamo -uno degli attentatori- “quello che è stato è stato e ha vinto chi ha vinto”.
Tutto ebbe inizio con il processo intentato ad Erich Priebke, ex capitano delle SS -ritenuto responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine- nel quale si costituirono parte civile i parenti delle vittime.
Ritenutosi, pertanto, possibile, anzi legittimo riportare dinanzi ad un tribunale un evento accaduto oltre cinquant’anni or sono e già giudicato dalla storia -anche se scritta dai vincitori- i parenti di Piero Zucchetti, un ragazzo di appena tredici anni che perse la vita nell’attentato, decapitato dalla violenza dello scoppio, circa un anno fa sporsero, a loro volta, denunzia alla magistratura, affinché promuovesse indagini dirette ad accertare eventuali responsabilità penali degli attentatori.
Di queste vittime civili di Via Rasella fino ad oggi poco o nulla si sapeva, perché nessuno aveva avuto il coraggio di parlarne.
Ma di coraggio, in questa squallida vicenda, non credo che ne sia stato necessario più di quanto non ne occorra ad una qualunque massaia, per posare un sacco di immondizie sul fondo di un cassonetto.
Di una incredibile dose di coraggio ha dato invece prova il Giudice Pacioni, invitando il PM a svolgere nuovi accertamenti ed approfondite indagini circa le eventuali responsabilità di coloro che parteciparono all’attentato ed accertare le reali finalità dello stesso, in quanto non sarebbe da considerare un atto di guerra, essendo piuttosto il “disegno provocatorio di gruppi politici in contrasto fra loro”: da una parte il GAP (Gruppo di Azione Partigiana), rappresentato da Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, autori materiali dell’attentato, e, dall’altra, l’organizzazione partigiana nota come “Bandiera Rossa”, che faceva capo a Massimo Caprara, segretario di Togliatti, contraria all’atto di forza, poiché lo stesso avrebbe scatenato -come poi avvenne con la strage delle Fosse Ardeatine- una feroce rappresaglia nazista.
E ciò con buona pace di quanti vogliono considerare l’attentato “un’azione patriottica” di cui “bisogna essere orgogliosi” (Flick, Ministro della Giustizia); o di chi, come Rosario Bentivegna -ritratto sul “Messaggero” del 28 Giugno u.s. con la sua faccia, all’epoca, di paffuto seminarista- considera “ridicola” l’accusa mossagli dal GIP di Roma, il cui provvedimento ha già provocato intollerabili interferenze da parte di politici in carica. Napolitano, Ministro degli Interni, lo ha definito “assolutamente aberrante” ed i presidenti dei senatori del PDS e dei Verdi hanno addirittura auspicato un intervento del ministro della Giustizia, per un fermo richiamo allo scomodo magistrato.
Malgrado tutto, noi ci auguriamo che la Verità, quella con la iniziale maiuscola, sia prima o poi destinata a trionfare, anche se non vorremmo peccare di eccessivo ottimismo, ricordando quanto scritto da Arrigo Petacco nella dedica “Ad una ragazza del ‘43” del suo libro “La nostra guerra 1940-1945”: “Quando comincia una guerra, la prima vittima è sempre la verità. Quando la guerra finisce, le bugie dei vinti sono smascherate, quelle dei vincitori diventano Storia”.
Non si comprende come l’accertamento di una verità diversa da quella ufficializzata possa mettere in discussione la validità dell’intera Lotta Partigiana; a meno che tale modo aberrante di ragionare non sia proprio di una determinata classe politica estremistica: la stessa che avrebbe richiesto lo scioglimento della Brigata “Folgore”, se si fosse dimostrato vero che alcuni suoi membri, in Somalia, avessero torturato dei prigionieri indigeni.
Quel fatale 23 Marzo 1944, dal cassonetto in cui fu collocata la bomba omicida non uscì soltanto la morte per tanti innocenti, ma un mal odore di codardìa che, dopo oltre cinquan’anni, aleggia ancora nell’aria di quella strada funesta.
Da questo possibile esempio di nemesi storica, viene quasi spontaneo il richiamo a certi recipienti, per i quali il cornuto artefice dimentica sempre di fare anche i coperchi.
(Ottobre 1997)