E’ INUTILE PIANGERE SUL LATTE VERSATO
La tragica alluvione che ha devastato la Campania, causando oltre trecento morti, polarizza ancora una volta la nostra attenzione sul grave dissesto idrogeologico in cui versa l’intero territorio dell’Italia.
Ogni volta che avvengono simili disastri, l’opinione pubblica viene sollecitata ed allertata dai mezzi di informazione, le “competenti” autorità solidarizzano con le vittime, promettono immediati provvedimenti, garantendo il più profondo interessamento, magari creando superministeri, affinché vengano sottoposti allo studio progetti idonei a predisporre le opportune difese contro simili calamità che, per comodità, vengono definite di carattere naturale, ma che, a ben considerare, naturali non sono.
Trascorso qualche tempo, l’interesse per tali tragici avvenimenti si attutisce, i mezzi d’informazione ne parlano sempre più di rado, l’urgenza si fa meno pressante ed, un poco alla volta, tutto cade nel dimenticatoio, comprese le promesse d’intervento di chi sarebbe preposto a farlo ed i progetti -ammesso che siano stati mai redatti- tornano a dormire nel cassetto di qualche burocrate.
E’ ciò che, a giudicare dal ripetersi di tali catastrofi, si teme sia almeno in gran parte avvenuto in Val di Sclave nel 1923 (350 morti), nel Polesine nel 1951 (84 morti), alla diga del Vajont nel 1963 (1800 morti), a Firenze nel 1966 (113 morti), in Valtellina nel 1987 (361 morti), in Piemonte ed in Liguria nel 1994 (75 morti).
Purtroppo, come dicevamo, le cause di questo più volte conclamato dissesto idrogeologico, che un geologo francese, già molti decenni or sono, riferendosi all’Italia, definì un completo “sfasciume”, solo in minima parte possono rientrare nell’ordine naturale, ma affondano le loro radici nella imprevidenza, nell’ignoranza, nell’abuso, nella più elementare mancanza di rispetto per l’ambiente da parte degli uomini, che hanno sfruttato le risorse naturali senza provvedere, nel contempo, all’attuazione di sistemi di ripristino delle difese dei suoli.
La deforestazione, gl’incendi dolosi ricorrenti ogni anno, le opere edilizie selvagge e senza controlli in zone ad alto rischio, dove le costruzioni non si sarebbero potute assolutamente effettuare, la cementificazione a monte degli alvei dei corsi d’acqua, che tende a velocizzare le masse liquide, spesso non accompagnata a valle da strutture idonee a controllarne il deflusso: tutto può contribuire a scatenare ed amplificare gli effetti delle forze della natura, che si ribellano alla umana imprevidenza.
Eppure, le cosidette catastrofi naturali non solo sono spesso prevedibili, ma non si fa nulla di positivo per tentare di evitarle. Ci si limita, quando accadono, a sollevare grandi clamori di ipocrita costernazione, scagliandosi contro la “natura matrigna”, ed a seppellire i morti, magari chiedendo scusa ai parenti delle vittime.
Un esempio per tutti.
Nessuno ignora che, alle pendici del Vesuvio, vivono oltre 700.000 persone in fabbricati costruiti abusivamente. Ma cosa avverrà quando, prima o poi, la furia del vulcano si scatenerà?
E che ciò debba avvenire è una certezza condivisa da molti vulcanologi, considerando che il normale periodo di quiescenza è già trascorso e che l’eruzione sarà tanto più potente e distruttiva, quanto più tarderà a manifestarsi.
Basterà a scongiurare il pericolo incombente la protezione di S.Gennaro?
La Campania detiene il triste primato negli eventi idrogeologici, se si tiene presente che, negli ultimi settanta anni, 631 di essi su 2678 hanno interessato il suo territorio.
Ma se si pensa che la nostra Umbria occupa il secondo posto in questa triste graduatoria, con ben 502 eventi, pari al 33,7% del totale, ciò deve portarci a prendere in seria considerazione che la preoccupazione a predisporre una difesa da simili pericoli è tutt’altro che ingiustificata e della massima urgenza.
Anche noi amerini, nel nostro piccolo, saremmo in grado di segnalare almeno cinque situazioni, per le quali non sarebbe azzardato parlare di catastrofe annunciata.
Sul piazzale del Duomo, dove già da oltre un decennio crollò una parte del parapetto verso est, trascinando nella sottostante scarpata una notevole porzione del piazzale stesso e che venne a suo tempo transennata, si sta determinando un analogo pericolo di crollo per la restante parte ancora in sito, il cui distacco potrebbe comportare imprevedibili conseguenze sia alle strutture del Duomo, che alle sottostanti abitazioni.
Nella vicina torre civica, il pericolo di caduta di massi, a causa dell’azione decalcificatrice di colombi e cornacchie, è tutt’altro che remoto.
Lungo le mura, verso il cosiddetto “giardino d’inverno”, la progressiva caduta dei conci rende problematica la staticità della parte di parete prospiciente il torrione. Anche sul lato di nord-est, fra la pineta e la porta di Leone, la pressione della massa di terra sovrastante può da un momento all’altro, produrre nuovi, più estesi crolli; anche qui le transenne sembrano costituire l’unica misura d’intervento adottata dalle competenti autorità.
La chiesa di S.Angelo e le adiacenti strutture murarie, da tempo abbandonate al più alto stato di degrado, necessitano di urgenti verifiche di staticità: quali conseguenze potrebbe comportare un loro crollo sulla sottostante strada per Orvieto?
Ed infine, lo sterro eseguito dietro l’abside della chiesa di S.Agostino, che ha, fra l’altro, sconvolto e lasciato indecorosamente fra il terriccio ossame umano delle antiche sepolture prospicienti la chiesa stessa, non rischia di indebolire ed allentare i contrafforti di difesa sia di quest’ultima che delle adiacenti costruzioni?
Non serve a nulla fare delle recriminazioni a posteriori per quanto si sarebbe potuto fare non è stato fatto, ma sarebbe addirittura criminoso fingere di ignorare ancora il problema e non attivarsi per allertare tutte le nostre capacità di difesa, sia su scala nazionale, che a livello più strettamente locale.
(Giugno 1998)